Alfredo Brillembourg1, in una recente intervista per Bloomberg City Lab, definisce gli slum come la “piastra di Petri dell’innovazione sociale urbana”. Petri è quel disco trasparente usato nei laboratori di biologia per osservare ed estrapolare le logiche di comportamento delle colonie di microrganismi. Il parallelismo è piuttosto azzeccato. Dalle esperienze nelle megalopoli in Sud America, Africa e Asia, l’architetto venezuelano definisce le baraccopoli così:
sono porzioni di città informale composte da centinaia di piccoli edifici addossati l’uno all’altro e da altrettante centinaia di piccole strade, messe a sistema da una struttura sociale interna auto-organizzata
Azzarda poi un altro paragone interessante quello tra il tessuto urbano degli slum e delle città medioevali, entrambi ad una scala decisamente umana, chiedendo a se stesso e ai colleghi di tutto il Mondo se non sia giunto il momento di dare il via ad un nuovo Illuminismo che, invece di far spazio a strade larghe e pulite o a mirabolanti cupole, sappia valorizzare la città informale e le sue radici. Come? Esplorandola e rappresentandola.
Caracas (Venezuela) - Lima (Perù)
5 ottobre 2021
tempo di lettura: 6’ 20’’
Nelle mappe satellitari di Google Maps gli slum sono rappresentati come masse informi senza strade e senza punti di riferimento, relegati ai margini delle città, in un limbo geografico nel quale però vivono milioni di persone. Le Nazioni Unite stimano che, nel mondo, gli abitanti delle baraccopoli siano circa 2 miliardi; si tratta di donne e uomini, bambine e bambini che quotidianamente percorrono strade, costruiscono e de-costruiscono edifici e spazi pubblici, sopperiscono alla mancanza dei servizi con le loro forze e con la creatività, sviluppando un associazionismo di quartiere che fa invidia a qualsiasi progetto di sharing economy calato dall’alto. Il fatto è che queste persone, non avendo un indirizzo di residenza, spariscono sia dalla mappa geografica che da quella sociale con gravi conseguenze; solo per citarne alcune: non possono accedere ai servizi sanitari (i soccorsi stessi, come ambulanze e pompieri, fanno fatica a raggiungerli), non ottengono l’allacciamento alla rete idrica, elettrica o internet. Per questo il primo passo per non “lasciare indietro” chi vive negli slum è cominciare a mapparli.
Nella cartolina n° 7 avevamo presentato il progetto Favelas 4D del MIT Senseable City Lab che analizza, misura e decodifica la conformazione dell’ambiente costruito delle favelas, servendosi della tecnologia di scansione con laser 3D. Tuttavia se si parla di radici della città la conoscenza più efficace non può che essere quella che parte dal basso, come stanno dimostrando alcuni giovani progetti sudamericani.
Mapeo San Miguel dell’Università Simón Bolívar di Caracas (Venezuela), è una dei pionieri nella mappatura degli slum e, grazie ad un gruppo di studentesse e studenti della facoltà di pianificazione urbana e ad abitanti del luogo, ha permesso di mappare 8 km di strade nella favela di San Miguel e di localizzare 34 esercenti. I dati sono stati caricati sulla piattaforma OpenStreetMaps, usando semplicemente degli smartphone. Gli esploratori hanno preso nota anche dei materiali usati per le costruzioni, delle loro condizioni e delle tipologie abitative, del modo in cui la gente percorre le strade, dei nomi che danno loro per riconoscerle e orientarsi, dei luoghi considerati sicuri e quelli da evitare, dei servizi spontanei a supporto della vita in favela.
Un altro progetto che sta facendo la differenza è il peruviano i’mappin che si occupa di mappare lo stato dei servizi nelle favelas di Lima e di fare da ponte con le NGO locali che possono così pianificare interventi mirati. Il team si definisce una startup di tecnologia urbana con valore sociale perché mette a punto soluzioni intelligenti e rispondenti alle reali necessità della città, sfruttando le potenzialità dei dati e della loro democratizzazione.
In riposta a queste iniziative dal basso, da qualche tempo anche il team di OpenStreetMaps è impegnato nella progettazione di strumenti digitali open source per la mappatura delle comunità locali sub-rappresentate, per agevolare la costruzione di comunità globali d’aiuto e soccorso. Si contano già alcune decine di progetti attivati, tra cui Tasking Manager dedicato alla mappatura dei luoghi colpiti da disastri e povertà.
Strumenti di questo tipo non solo mettono in contatto il bisogno e chi lo può soddisfare, ma danno dignità alle città informali, sensibilizzano i governi e l’opinione pubblica, sovvertono il preconcetto architettonico del “è bello solo ciò che è ordinato”, smontano la pianificazione dall’alto e infine contribuiscono a costruire la consapevolezza del luogo, perché prendere in mano un foglio di carta e mappare la propria realtà è il primo passo per sviluppare un pensiero critico e incentivare l’azione civica. Anche lo smartphone, mezzo ormai accessibile a molti, anche a chi vive negli slum, potrebbe diventare, proprio grazie alle tecnologie digitali opensource, uno strumento educativo per far sentire la propria voce, per geolocalizzare se stessi e rappresentare la propria comunità, per esprimere necessità, urgenze e per che no, anche per condividere buone pratiche.
L’artista brasiliano Hélio Oiticica, a cavallo tra gli anni ’60 e ’70, un momento molto caldo per la politica brasiliana, aveva trovato una formula molto efficace per sottolineare l’energia creativa e vitale degli abitanti delle baraccopoli. Dopo un’esperienza di vita nella favela di Mangueira Hill, a Rio de Janeiro, cominciò a costruire i Parangolés, abiti nati dall’assemblaggio di mantelli, bandiere, stendardi e tende. Questi “quadri abitati”, come li definirono i critici, erano, per chi li indossava, uno strumento per rivendicare la propria esistenza e i propri diritti. Sui tessuti, plastiche, stuoie, corde, che raccoglieva in favela e con cui creava i vestiti, Oiticica dipingeva slogan politici e sociali. Così, quando i ballerini locali li indossavano non solo riempivano le strade di "colore in movimento”, ma diffondevano messaggi di libertà, tutela dei diritti e uguaglianza.
Non poteva esserci oggetto migliore che un Parangolés per rappresentare la città informale che, proprio come un vestito, sembra costruita su misura per e dai suoi abitanti e che per questo, nonostante il limbo nella quale è relegata, difende le sue radici con una forza degna di un nuovo illuminismo.
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Architetto co-fondatore di Urban Think-Tank, lo studio multidisciplinare che si occupa di sviluppare nuove strategie per riqualificare le aree emarginate delle metropoli, nel 2012 è stato insignito del Leone d'oro da parte della Biennale di Venezia per il progetto Torre David.