Durante una TED conference nel 2013, l’ecologista Allan Savory ricevette la standing ovation del pubblico per aver trovato una soluzione alla desertificazione del suolo. L’ecologista, nativo dello Zimbabwe, dopo decenni di esperienza si interrogò sugli insuccessi delle soluzioni tradizionali. Notò infatti che ridurre la circolazione del bestiame, considerato la prima causa della desertificazione a causa del cibo e dell’acqua che “strappa” al suolo, controllare le mandrie, anche a costo dell’abbattimento di centinaia di animali, e concentrarle in aree delimitate non stava portando i benefici sperati, al contrario stava peggiorato la situazione. Savory si rimise così ad osservare la Natura, interrogandosi sulle sue logiche e giunse alla conclusione opposta, ossia che il branco vive in simbiosi con la Terra e con i predatori e che gli animali, se lasciati liberi di spostarsi, crescere e muoversi alla ricerca di cibo e acqua, possono rinverdire il suolo e nutrirlo, spargendo i loro escrementi (fertilizzanti naturali) e calpestandolo. Come lui stesso spiega, cominciò a lavorare “con” la Natura e non “per” la Natura e mise a punto un sistema di pianificazione dei pascoli che imita le logiche delle mandrie allo stato brado e che definisce Holistic Management perché tiene conto della complessità della questione. Il metodo fu testato in Africa, una delle zone più critiche del Pianeta, facendo registrare, in tempi rapidissimi, risultati straordinari, tanto che attualmente sono sempre più numerosi gli allevatori e gli agricoltori che lo applicano e che vedono le loro terre rinascere nel giro di pochi anni.
Durante le sue presentazioni Savory ripete che l’essere umano deve rendersi conto che non è in grado di gestire e di affrontare la complessità della Natura e che tutto ciò che ha fatto fino ad ora, anche con le migliori intenzioni, è stato dannoso per l’ambiente. L’unica chance, e lo ripete con energia come un mantra, è fare l’impensabile. Come? Ricominciando da capo e riacquistando la capacità di guardare altrove.
Montagne di mezzo, Italia
19 ottobre 2021
tempo di lettura: 6’ 40’’
Quella di Savory è una lezione il cui valore trascende il campo di applicazione e che potrebbe essere rivoluzionaria anche per il mondo della pianificazione. Per spiegarne i motivi azzardiamo un parallelismo tra le mandrie e gli essere umani, tra la desertificazione e l’abbandono del paesaggio.
Pensiamo a che cosa è stato fatto in nome della specializzazione e standardizzazione legata ai processi di produzione agricola, industriale e turistica. La concentrazione delle attività produttive e della manodopera in pianura e collina ha causato, a partire dalla fine dell’Ottocento ad oggi, un abbandono progressivo dei territori orograficamente scomodi o comunque tali da rendere complessa la logistica industriale.
In Italia questi luoghi hanno un nome: montagne.
Per cercare di invertire la rotta ci sono due possibilità: farsi portavoce di slogan accattivanti come “adotta un borgo” o imparare dalla lezione di Savory e mettersi in osservazione con occhi nuovi, una questione che, da qualche mese a questa parte, sta provocando un vivace dibattito.
Partiamo dall’inizio. Nell’aprile del 2020 l’architetto Stefano Boeri presenta a La Repubblica la sua visione per un’Italia dei borghi che, per quanto utopica, ha avuto il merito di accendere la discussione. Infatti a poche ore di distanza il Presidente nazionale di Uncem Marco Bussone risponde all’archistar con una lettera nella quale esprime chiaramente le sue perplessità in merito alle soluzioni “spot” avanzate dal turismo e dal movimento new rural sottolineando invece alcune priorità, come la costruzione e il potenziamento dell’infrastruttura della rete internet, e coglie l’occasione per fare un’esplicita richiesta all’architettura: mettere a punto strategie per trasformare i territori montani in laboratori piuttosto che in vedute pittoresche più adatte ai social o a propagande elettorali che non alla vita reale.
Negli stessi mesi il geografo Mauro Varotto1 pubblica il libro Montagne di mezzo. Una nuova geografia (Einaudi, 2020) che parte da una considerazione importante:
Per la prima volta nella storia lo spopolamento montano avviene in un momento climaticamente favorevole, il che significa che ora sono i fattori economici, e quindi politici, a condizionare i territori.
Vardotto spiega come siano state le “regole” (anche comunitarie) a trasformare la complessità della montagna in una debolezza invece che in una risorsa, causando un impoverimento culturale che ci riguarda tutti. Anche lui sottolinea quanto la retorica della tradizione e la narrazione del “puro è bello” stiano confondendo le cose facendo credere che rivivere la montagna sia un ritorno al passato nella sua accezione romantica. Invece per mettere a punto un piano di ritorno che duri nel tempo è necessario costruire uno stile di vita completamente nuovo, mai visto prima, basato sulla multifunzionalità e sulla complessità. Insomma, proprio come ha fatto Allan Savory, è necessario ricominciare tutto da capo e riconsiderare la dimensione umana del paesaggio e la sua sapieza che si manifesta nella relazione, ignorata dalla modernità, tra orografia e antropologia, tra genere umano e il suo modo di abitare la Terra. La direzione consigliata da Varotto è quella di riallacciare i legami tra pianura e montagna per trasformare questo altrove in un territorio polifunzionale che vive della circolazione spontanea di persone e risorse e della promiscuità di attività e culture. E l’architettura, in quanto disciplina che progetta le infrastrutture fisiche a supporto di quelle sociali, è chiamata in prima persona a dare una risposta e a fornire soluzioni.
Un esempio eccellente e precursore dei tempi è il villaggio laboratorio di Ghesc in Val d’Ossola, nella provincia di Verbano-Cusio-Ossola (VB), all’estremo nord del Piemonte, quasi al confine con la Svizzera, nato dalla visione di Maurizio Cesprini, ex insegnante e con una laurea in scienze ambientali, e dalla compagna Paola Gardin, architetto, che circa vent’anni fa hanno deciso di trasformare un borgo settecentesco diroccato in un’opportunità professionale e di vita, dando vita ad un laboratorio didattico per il recupero e la valorizzazione dell’architettura locale.
Il progetto è in capo all’Associazione Canova, di cui Maurizio è socio-fondatore e che ha sede proprio a Ghesc, un'organizzazione internazionale che attraverso attività didattiche, divulgative ed artistiche permette a studenti provenienti da tutto il mondo di toccare con mano il significato del recupero e della sostenibilità declinato nel saper “ricostruire a partire da quello che c’è”. I risultati locali e globali sono molti e straordinari, tanto che si può dire che il progetto di Maurizio e Paola sia un modello funzionante per sovvertire l’abbandono e recuperare le origini di un saper fare in simbiosi con il luogo.
Ghesc dimostra che è nella complessità dell’altrove che si possono trovare le risorse per ricominciare a lavorare CON il territorio piuttosto che PER il territorio.
Non resta che spargere la voce e rivolgere lo sguardo a quel 23,3% d’Italia, corrispondente a oltre 7 milioni di ettari di territori abbandonati che invocano un cambio di paradigma e una gestione olistica.
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Alla prossima cartolina!
Geografo dell’Università di Padova e coordinatore del Gruppo Terre Alte del Comitato scientifico centrale del Club alpino italiano.